giovedì 8 marzo 2012

Ci è stato insegnato che studiare ci avrebbe fatte crescere ed emancipare

Eravamo bambine, e qualcuno ci ha detto che la cultura è importante e che un serio percorso di studi all’università sarebbe stata la chiave della nostra autodeterminazione.

Noi ci abbiamo creduto: abbiamo studiato, ci siamo iscritte all’università e abbiamo continuato a studiare. Molte di noi non hanno smesso di studiare nemmeno dopo aver conseguito la tanto decantata laurea, inceppate in una corsa senza fine da un titolo all’altro, da un master all’altro, da uno stage non pagato all’altro. Molte altre invece non hanno mai smesso di lavorare mentre
incastravano crediti come in un tetris angosciante, perché l’università è importante ma nessuno ti dà una mano se non sai come pagarla.

In un sistema universitario che non ci qualifica, che anziché libero sapere ci dà cultura parcellizzata, che ci sbarra la strada con inutili test di ingresso, che calcola ipocritamente i nostri “meriti”, che ci impone tasse ogni anno più alte e si concede ai privati abbandonando la sua natura pubblica, noi non ci sentiamo certo “emancipate”!

Certo, basterebbe stringere i denti, sopportare un sistema di istruzione dequalificato e privatizzato pur di prendere in mano il prima possibile il nostro futuro... Se solo un futuro fosse possibile!

All’uscita di questo percorso a ostacoli che chiamano università, invece, ci troviamo di fronte a un mondo del lavoro a dir poco scoraggiante, dove l’accesso al futuro ci è negato in quanto giovani, ma soprattutto in quanto DONNE.
Assurdo? Eppure i dati parlano chiaro: tra i giovani laureati, le donne sono più del 50% e con una media più alta rispetto ai colleghi uomini. Negli ultimi anni è stato rotto anche il tetto di cristallo di quelle discipline da sempre inaccessibili per le donne, come ingegneria, fisica e in generale le materie scientifiche.
Nonostante questo, il 28% delle donne tra i 25 e i 29 anni, dopo il percorso universitario riesce a trovare solo un lavoro atipico, contro il 18% degli uomini. Il 40% delle lavoratrici invece svolge un lavoro ben al di sotto delle proprie competenze, contro il 31 % dei lavoratori uomini. Le donne laureate che svolgono una serie di lavori precari sono più del 21%, contro il 12,4% dei
precari di sesso maschile. E ancora: ben il 50% delle donne laureate lavorano come impiegate a fronte del 26% degli uomini laureati.

Sono dati che fanno paura, se si pensa che secondo l’opinione pubblica non esistono più disuguaglianze di genere grazie ai diritti acquisiti dalle donne negli anni 70. La tanto desiderata parità ci è stata concessa solo negli aspetti peggiori della precarietà.

Sentiamo parlare con toni entusiastici da parte delle forze economico-politiche di FEMMINILIZZAZIONE DEL LAVORO: una mano santa, dicono, per l’ingresso delle donne nell’ambito pubblico. E’ vero, ma ci rendiamo conto anche di come questa dinamica abbia portato a un peggioramento delle condizioni lavorative di tutti: in pratica femminilizzare il lavoro significa abbassare per gli uomini il livello dei diritti sul lavoro a quello delle donne. Bella svolta, no?

Ai giovani in uscita dall’università, che siano uomini o donne, si prospetta un futuro fatto di precarietà, in cui il posto fisso non è che un miraggio e il part-time diventa la sola occasione per poter lavorare: un futuro che vede a livello europeo un graduale peggioramento della forza lavoro dall’occupazione stabile al lavoro precario fino alla disoccupazione.

Non si tratta solo di precarietà lavorativa, ma di PRECARIETA’ ESISTENZIALE.
La vita delle donne e le loro scelte ne vengono infatti influenzate in maniera molto più aggressiva rispetto a quanto accade agli uomini. Il 30% delle lavoratrici ha ammesso di aver lasciato il lavoro a causa di una gravidanza, tra queste più del 40% ha dichiarato di averlo fatto contro la propria volontà. Dunque la maternità sarebbe un handicap?
Come se non bastasse, le leggi sul part-time vengono presentate come “misure a favore delle donne”, in nome di una fantomatica “conciliazione” fra lavoro e famiglia che ci riporta indietro di cinquant’anni. Per sopperire allo smantellamento del WELFARE, che vede tagli indiscriminati su asili, scuole e sanità, dobbiamo essere pronte a diventare educatrici delle nuove generazioni e badanti di quelle precedenti.
E’ dato per scontato, insomma, che il lavoro di cura sia una prerogativa del tutto femminile: così le donne italiane sono chiamate (ancora) a farsi carico di un doppio lavoro... uno mal retribuito, l’altro a titolo gratuito!

Precarie nella sfera pubblica e non retribuite in quella privata, noi a questo gioco non ci stiamo!

Vogliamo libertà di scelta del nostro futuro,
vogliamo un’università pubblica e che ci formi davvero,
vogliamo una parità reale sul lavoro,
vogliamo diritti e la possibilità di autodeterminarci!

Siamo donne, studentesse, precarie: abbiamo forza, passione, desideri, e non ci stiamo più a subire le decisioni di chi non ci rappresenta!

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